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Human Dilatations


Hestetika Magazine, IT

8 pages



Che cosa accade quando il corpo femminile si distacca dall’idea di perfezione, liberandosi degli stereotipi di bellezza dei falsi miti imposti dalla società? Attraverso la sua visione, Roger Weiss, ci introduce a una comprensione più profonda del corpo femminile distaccato dai preconcetti che definiscono la bellezza nel mondo di oggi. Il suo sguardo fotografico percorre minuziosamente ogni dettaglio del corpo ritratto, non omettendo nessuna imperfezione, spesse volte celate, ora invece necessarie per rendere il soggetto totalmente umano e unico. Le opere di Roger Weiss ritraggono donne monolitiche, forti e imponenti, ma che portano con sé tutta la morbidezza, leggerezza, carnosità e cedevolezza della loro femminilità.


Perché fotografi?
Fotografare è acquisire, in un tempo relativamente breve, una grande quantità di informazioni relative al mio oggetto di studio: la donna.

Perché fotografi in questo modo?
Scomporre e ricomporre i miei soggetti, soffermandomi su ogni singolo dettaglio, mi permette di dilatare il tempo della posa, di far crescere l’opera scatto dopo scatto e dedicarmi all’analisi di ogni singolo particolare, altrimenti celato e, apparentemente, non significativo.

Forse non esiste una regola, probabilmente è soggettivo, ma credo che in genere uno si fa un’idea di un’altra persona guardandola nel suo insieme e magari, dopo, in un secondo momento, soffermandosi sui dettagli. Tu parti dallo studio minuzioso di ogni singolo dettaglio, per arrivare poi al suo insieme completo. Perché questo procedimento inverso?
Sono i singoli segni ad animare un quadro. Penso a Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh, le cui pennellate sono un’esplosione di una miriade di tracce vibranti, un invito, solo in un secondo momento, e dopo averle distinte nitidamente, ad allontanarci e a socchiudere gli occhi per percepirne, nel suo insieme, l’incredibile energia vitale di cui sono portatrici.

Hai dichiarato più volte di essere una persona contemplativa, hai studiato molti anni chitarra classica e l’hai poi abbandonata perché “non riuscivi a vivere l’attimo”. Per questo le tue pose sono lunghe e dettagliate? In termini di tempo, ricordano le prime esposizioni della dagherrotipia.
Hai bisogno di dilatare il tempo, frammentarlo e poi metterlo insieme per godere del momento?
Non riuscire a stare nell’attimo è per me una mancanza che cerco di colmare attraverso la mia ricerca, senz’altro uno dei motivi per cui mi sono avvicinato alla fotografia e al laborioso processo che impiego per far mia un’opera. É solo durante l’evoluzione lavorativa e, in seguito, di contemplazione, che riesco a focalizzare la giusta attenzione verso il mondo: solo in quel preciso momento il tempo diviene meno ostile e produce in me quell’irrefrenabile desiderio di giungere alla fine di un processo di sintesi che applico ad ogni opera.

La fisiognomica ci insegna che attraverso il viso, lo sguardo di una persona, si riesce a capire il suo vissuto, a meno ché non la si ritragga in pose naturali che raccontano in qualche modo la personalità del soggetto. Le tue figure, se penso a Monoliths, ma anche a I am Flesh, sono tutte incentrate su di un format sempre uguale, impersonale e statico che apparentemente non racconta nulla del soggetto…
Il punto del mio lavoro è privare ogni opera di una propria identità legata alla persona ritratta, in sostegno ad una figura riconducibile a tutte le donne o a nessuna in particolare.

Come rendi possibile questa cura e monumentalità dell’opera? Puoi descriverci in modo pratico il tuo modus operandi?
Ogni singolo dettaglio del corpo viene acquisito fotograficamente in modo minuzioso attraverso centinaia di scatti che poi vengono riassemblati attraverso la mia visione. Questo modus operandi mi permette di raggiungere due scopi per me essenziali: il primo è quello che ogni opera conservi una moltitudine di informazioni fotografiche, altrimenti impossibili da ottenere; il secondo punto è legato alla possibilità di creare distorsioni e prospettive esasperate grazie all’impiego di differenti ottiche di ripresa e alla relativa scelta delle immagini da assemblare insieme.

Qual è il concetto su cui si basa Human Dilatations?
Human Dilatations è uno sguardo sull’uomo contemporaneo spogliato dei due elementi che contraddistinguono la sua ricerca: perfezione fisica e il potere/ruolo attuale della mente. Ogni immagine rappresenta, di fatto, un corpo distorto nelle proporzioni di alcune sue parti che prevale su di una testa che scema senza lasciare traccia di sé. Nel corpo vedo l’esperienza manifesta di ciò che siamo, senza la quale rimarrebbe solamente il risultato di un processo evolutivo sempre in movimento e lontano dall’immagine primordiale. Il mio percorso è nato con l’approcciarmi all’immagine della donna nel nostro tempo e lo schematismo a cui la sua figura è stata ridotta, un insieme di canoni e modelli a cui far risalire la donna/individuo, invece che il contrario. Human Dilatations non teme i segmenti della cedevolezza del corpo insieme alle sue imperfezioni, ma accompagna l’immagine femminile ad apparire nel suo insieme come una forma altra, in un gioco di distorsioni che permette di rapportarsi all’immagine in modo cangiante, distaccandosi completamente dal gusto stereotipato ed ipocrita del bello.

Quante ore di lavoro ci sono dietro ogni tua opera?
A grandi linee una settimana per ogni immagine.

Ho visto che stai leggendo i diari di Alberto Giacometti, sfogliando alcune pagine ho trovato interi appunti, pubblicazioni, “ricerche sperimentali” e dialoghi con André Breton composti solo da domande, a volte surreali, che lui si poneva e che poneva, e ponevano, al suo lavoro. Anche tu tieni un diario? Anche tu ti poni così tante domande? E quante risposte trovi in grado di darti nuove consapevolezze?
Non regolarmente, ma raccolgo scritti personali da diverso tempo. Porsi domande è implicito nella condizione umana. Ma è per le risposte che ha senso mettersi in gioco.

Rimanendo su Giacometti, anch’esso artista svizzero, prendo a caso un paio delle sue domande e le rigiro a te, curiosa di sapere come risponderesti pensando al tuo lavoro: È adatto alle metamorfosi?
Alla metamorfosi e alla dinamicità. L’opera prende forma come accade in un film, attraverso un susseguirsi di singoli fotogrammi.

Qual è la sua situazione spaziale in rapporto all’individuo?
Lavoro bidimensionalmente su soggetti ai quali conferisco una plasticità scultorea.

Gli artisti hanno sempre bisogno di forti emozioni, di chi e di cosa ti innamori?
Del bello, di ciò che fa scattare il mio desiderio di conoscenza. Il tema del bello ha radici nel nostro essere più profondo ed è determinante nella sfera primordiale di ciò che accende il desiderio: motore trainante per il raggiungimento di tutto quanto comporti fatica.

Sei nato e cresciuto in Svizzera da padre svizzero-tedesco e madre italiana-meridionale. Hai studiato in Italia diplomandoti con lode all’Accademia di Belle Arti di Brera. Vivendo quotidianamente queste due realtà e abitando in un luogo di confine, ti senti più italiano o svizzero? Perché?
Mi è difficile identificare me stesso con un colore di bandiera. Cerco di stare a un senso civico che mi permetta di coesistere con gli altri senza privare nessuno della propria libertà. La Svizzera rappresenta un insieme di diverse culture e lingue racchiuse in uno spazio relativamente piccolo, al centro dell’Europa, ma senza farne parte. È come avere una casa con più uscite. Mi sento vicino a questo modo di essere.

Sei stato appena invitato in Costa Rica all’università di fotografia della capitale per tenere un seminario sulla tua tecnica fotografica e nello stesso periodo a partecipare ad una esposizione presso Snap! Space in Florida. Cosa ci racconti di queste due esperienza?
In Costa Rica ho vissuto una bellissima esperienza fatta di tanti splendidi particolari, ma ciò che mi è rimasto più a cuore è stato il confronto con gli studenti che mi hanno ricordato quanto sia importante rendere trasparente il proprio percorso per dar luce a nuove realtà; e la bellezza nel relazionarmi a nuovi soggetti da fotografare fuori dal mio studio. Per quanto riguarda Snap! Space ho avuto un feeling immediato con Patrick, il gallerista. Zurighese di nascita e da due decenni negli USA, ha scoperto il mio lavoro un paio di anni fa e, da allora, abbiamo cercato una giusta occasione per presentare una selezione dei miei lavori di grande formato presso una delle sue gallerie a Orlando.


Interview by Valentina De’ Mathà